Vito, come hai conosciuto gli Agostiniani?

Per caso mi sono trovato di passaggio dal monastero di Sigillo, un monastero frequentato da amici che fanno trasmissioni su Radio Maria, i quali mi avevano consigliato di fermarmi lì una notte, dato che avevo bisogno di fermarmi. Lì ho conosciuto le monache che mi hanno invitato ad andare a visitare il parco di Monte Cucco. Ci sono andato due o tre volte a fare trekking ed è nata una bella amicizia con le monache. L’abbadessa sapeva che ero in discernimento vocazionale e improvvisamente mi è arrivata una cartolina che mi invitava ad andare a fare un’esperienza vocazionale a Tolentino, dai Padri Agostiniani. Ci sono andato e così ho conosciuto i Padri a Tolentino.

Cosa significa per te essere agostiniano?

Agostiniano vuol dire entrare in una grande famiglia, ma non religiosa. È mettere al centro quello spirito di comunione, dove il costruire il legame con l’altro e il custodire il legame che c’è diventa una priorità. Stiamo crescendo, specialmente ultimamente. Penso che come Provincia cerchiamo di lavorare in équipe ponendoci obiettivi fattibili. Questo lavorare di squadra, cercare di stare attento a chi ti sta accanto, cercando di coinvolgere e di confrontarci, diventa la base della comunione concreta da costruire.

Dato che è da poco che hai lasciato il “mondo esterno” quale secondo te la necessità più immediata dei ragazzi e giovani d’oggi a cui rispondere?

Penso che oggi la sfida principale sia quella educativa perché quelle che sono le principali istituzioni educative, la famiglia e la scuola, vivono un momento di difficoltà. La priorità è lavorare sul far emergere quello che i ragazzi hanno dentro, quelli che sono i valori fondamentali della vita e della fede. Farli crescere, accompagnandoli, penso che sia la sfida dell’educazione del cuore, dove i desideri, i sogni, ma anche le fratture, si calano nel quotidiano, nelle scelte e nelle relazioni e nel servizio che parte dal messaggio evangelico.

Sei stato in diverse realtà agostiniane e adesso ti trovi in una parrocchia “di periferia”. Qual è stato l’impatto e quali sono le sfide e le difficoltà che hai trovato e come le stai affrontando?

Inizialmente l’impatto è stato l’impressione di una confusione continua. In realtà, se ci si ferma si vede che ogni parola, ogni gesto, ogni atteggiamento ha dietro di sé l’esigenza di voler essere ascoltato, capito e accolto. Penso che il primo passo sia quello dell’accoglienza, che nasce dall’ascolto e dall’accompagnamento. Allora sì che le persone possono sperimentare quel braccio teso, quella presenza che non è volta esclusivamente a soddisfare bisogni materiali, ma soprattutto interiori. Potersi sentire ascoltato e accolto penso che sia il primo bisogno a cui rispondere.

Di fatto la vostra comunità è diventata una presenza significativa sul territorio e ha portato anche un miglioramento sociale nel quartiere.

Difficoltà economiche e materiali ce ne sono tante, anche a livello esistenziale; a volte si tratta di riconoscere la dignità alle persone. Quindi l’essere uniti e distribuire tra noi i compiti, la collaborazione e l’interazione tra noi, con la collaborazione preziosa dei laici, ci aiutano non solo nell’ambito della Caritas, ma anche dell’ascolto, nella visita agli ammalati, nella segnalazione delle esigenze del territorio. Cooperando con loro siamo riusciti a far fronte in parte ad alcuni bisogni materiali, ma sostanzialmente offriamo una presenza che è segno di vicinanza.

 

Come si possono avvicinare i giovani a Dio?

Penso che oggi l’evangelizzazione, specialmente rivolta ai giovani debba partire dal riscoprire la via della bellezza, partendo proprio da ciò che non è bello, da ciò che è una sorta di illusione, quindi una bellezza falsa. Questo è il canale attraverso il quale i giovani possono aprire gli occhi, porsi delle domande e quindi possono essere accompagnati in un itinerario di ricerca. Allora sì che la via esperienziale, partendo dal loro vissuto, diventa la via principale per arrivare alla scoperta del Vangelo e all’incontro con Gesù.