Fonte : Rivista Santuario n. 2 del 2022 di padre Giuseppe Scalella osa.

Questo tempo ci sta frantumando. Ci sta facendo perdere la coscienza di noi stessi e di ciò che veramente conta nella vita. Ci sentiamo perduti, come in alto mare, ci siamo arresi, forse perché stanchi delle dure prove a cui siamo sotto-posti o perché abbiamo spostato l’atten-zione sull’immediato, credendo di risolvere qualcosa, ma ci accorgiamo che non è così. Abbiamo un bisogno estremo di respirare perché ci troviamo come dentro una stanza dall’aria consumata: l’ovvio, lo scontato, il “già saputo” ci stanno asfissiando. Abbiamo bisogno di aria fresca, almeno di una brezza leggera che ci rianimi, abbiamo bisogno di sperare. C. Peguy, nel suo Il portico del mistero della seconda virtù, dice:

La piccola speranza avanza tra le sue due sorelle grandi (la fede e la carità)
e non si nota neanche…
E non si fa attenzione, il popolo cristianonon fa attenzione
che alle due sorelle grandi.
È lei, quella piccina, che trascina tutto. Perché la Fede non vede che quello che è. E lei vede quello che sarà.
La Carità non ama che quello che è.

E lei, lei ama quello che sarà. Da dove attinge Peguy per parlare di spe-ranza come di colei che trascina le altre due e che le altre due (la fede e la carità) non sarebbero niente senza la speranza? Come si fa oggi a parlare di speranza a chi è così duramente provato dalla vita? Può esserci ancora davvero qualcosa che può continuare a nutrire la nostra coscienza di uomini, a non arrenderci davanti alle prove e ritornare protagonisti della vita? Agostino nel discorso 313 scrive: “Noi possiamo parlare e possiamo smettere di parlare; la speranza grida sempre a Dio. E guai a colui che ora è senza speranza: infatti è un male essere senza speranza, perché ancora non è propria la realtà; allora, quando sarà posseduta la realtà, cesserà di essere la speranza.
Ora infatti notiamo che gli uomini sperano molte cose relative a questa terra e, nell’ambito della vita secondo il mondo, l’esistenza stessa di ogni uomo non manca di speranza; anzi, fino alla morte, ciascuno non è privo di speranza…”.

L’attesa Perché Agostino dice che “l’esistenza stessa di ogni uomo non manca di speranza”. A noi sembra proprio il contrario. Ma lui interroga la natura, vuol vedere come è fatta la vita. E in essa scopre un anelito inesausto alla speranza. E ne fa un lungo elenco, quasi a dimostrarci che la speranza può venir meno, si può metter da parte ma riaffiora sempre perché siamo fatti di speranza e di attesa. La vita ne è intessuta e non può mai venir meno a sé stessa. Tutti i tentativi che facciamo per realizzare o fuggire da noi stessi falliscono presto. L’attesa, quindi, è ciò che sempre rimane quando i nostri tentativi, compresi quelli riusciti, si sono dimostrati insufficienti a raggiungere lo scopo, cioè il compimento di sé, la pienezza qui e ora, in ogni istante, non domani o nell’aldilà. L’amore a sé stessi Attenzione però, il dato di questa attesa, pur imponente e oggettivo, non è l’ultima parola. Vale a dire: esso esige di essere riconosciuto, accettato, fatto valere. Sfida perciò la nostra ragione e la nostra libertà. Questa è la nostra grandezza di uomini: l’attesa è nella nostra natura, ma possia-mo cercare in tanti modi di vivere come se non ci fosse, distraendoci, facendo finta che non ci sia; essa c’è, ma non si impone meccanicamente: la dobbiamo volere. Ma volere che cosa? Volere quello che speriamo.

La speranza è Dio che viene Agostino si domanda: “Qual è allora l’oggetto della nostra speranza per cui, una volta presente, subentrando come realtà, ecco cessare la speranza? Qual è? È la ter-ra? No. È forse il cielo così bello e ornato di astri luminosi? Tra queste cose visibili che c’è infatti di più dilettevole, di più bello? Non è neppure questo. E cos’è? Queste cose piacciono, sono belle queste cose, sono buone queste cose: ricerca chi le ha fatte, egli è la tua speranza. Egli è, ora, la tua speranza, egli sarà, poi, il tuo bene; egli è la speranza di chi crede, egli sarà il bene di chi vede”. Ma non basta neanche questo: come si può, infatti, cercare – e riconoscere – chi ha fatto le meraviglie che si vedono intorno a noi e in noi?
Dice Agostino, discorso 2: “E’ come se uno vedesse da lontano la patria, e ci fosse di mezzo il mare: egli vede dove arrivare, ma non ha come arrivarvi. Così è di noi, che vogliamo giungere a quella stabilità dove ciò che è è, perché esso solo è sempre così com’è. E anche se già scorgiamo la meta da raggiungere, tuttavia c’è di mezzo il mare di questo secolo. Ed è già qualcosa conoscere la meta, poiché molti neppure riescono a vedere dove debbono andare. Ora, affinché avessimo anche il mezzo per andare, è venuto di là colui al quale noi si voleva andare. E che ha fatto? Ci ha procurato il legno con cui attraversare il mare”. Quel legno è Gesù stesso e nel discorso 88 dirà: “ho paura che Gesù passi e io non me ne accorga”.