Fonte: Il Sussidiario del 22 marzo 2022

La guerra ci impone, oltre che donare i nostri soldi, di accogliere i rifugiati e ripensare il nostro sistema di difesa, di cercare di capire

Anna è riuscita a lasciare Mariupol una settimana fa. Quando ha messo piede in strada le sembrava di essere in un altro posto: quasi tutti gli edifici erano stati colpiti dall’artiglieria di Putin. C’erano detriti ovunque. Il peggio non era ancora arrivato per la città costiera, ma la giovane fotografa ha vissuto settimane di angoscia e paura. Ha deciso di fuggire quando una bomba è esplosa all’ingresso del seminterrato dove viveva da giorni. Anna aveva una macchina con cui fuggire e aveva ancora benzina. Molti altri sono andati via a piedi. 

Anna e diverse famiglie hanno vissuto per giorni senza vedere la luce del sole. Alcuni dei suoi compagni avevano la febbre perché le ferite da schegge si erano infettate e non c’era modo di procurarsi medicinali, ma solo un po’ di cibo e acqua. 

Mariupol subisce un terribile assedio, ma le città ucraine sono piene di Anna che non riescono a fuggire. La guerra si trascina. Putin non raggiunge i suoi obiettivi. I suoi soldati muoiono a migliaia. Non riesce a ottenere la vittoria che pensava fosse facile, e non può nemmeno ritirarsi. Cerca truppe fresche in Russia e fuori dalla Russia. E, nel frattempo, bombarda indiscriminatamente. Il risultato è un notevole aumento dei morti e dei feriti civili ucraini, la distruzione delle infrastrutture e l’intensificazione della crisi umanitaria. 

L’esercito russo circonda le città e le attacca da lontano, impedisce l’ingresso di viveri, lascia scappare alcuni residenti. Non vuole entrare in quelle città perché Putin sa che nel combattimento urbano perde la superiorità. Le agenzie internazionali sono sorprese che nel XXI secolo la guerra venga condotta in modo così crudele. Come se questo secolo dovesse essere necessariamente meno cruento del precedente o del II secolo. 

Per un mese abbiamo sentito storie come quella di Anna. Altre molto più tragiche. E in molti casi vorremmo non subire il colpo che ci dà la guerra. Non vedere, non dover pensare, non sentire tanto dolore. È paradossale perché in quest’epoca in cui tutto è stato ridotto a etica, a moralismo soffocante, quando appare il male cerchiamo risposte che diluiscano il mistero dell’iniquità. Dobbiamo ricorrere a qualche patologia mentale per spiegare l’insensibilità alla morte e alla devastazione ricercate in modo sistematico. Putin “deve essere” uno psicopatico, un pazzo. Ma è difficile barare sulle prove. Tutto è troppo chiaro e tutto è troppo scuro. Il Presidente russo è disposto ad accettare che Zelensky rimanga al potere, è persino disposto ad accettare la neutralità offerta dall’Ucraina dopo la rinuncia all’adesione alla Nato. Ma non può porre fine a una guerra iniziata con menzogne senza grandi annessioni territoriali, senza mantenere la Crimea, il Donbass e una striscia che collega le due aree. Vuole forzare una pace per i territori e per questo è disposto a tutto. 

Non si può capire cosa sta succedendo in Ucraina senza accettare che è impossibile misurare e pesare, dettagliare in una tabella Excel, l’origine di un piano e di un’azione così perversi. Una volta dettagliate tutte le analisi geostrategiche, dietro ogni morto, dietro ogni ferito, dietro ogni rifugiato c’è qualcosa di terribile, un abisso che non si spiega. Paradossalmente, la nostra ossessione etica ci paralizza, ci lascia senza la capacità di ragionare. Il nostro modo di pensare è abituato a beni e mali borghesi, piccoli, gestibili. Anna, la fotografa fuggita da Mariupol, e le migliaia di vedove, orfani e rifugiati, in mezzo al loro intenso dolore, sentono, sanno di essere stati vittime di un’ingiustizia indicibile. Farsi carico di questa guerra, viverla come nostra, non è, soprattutto, un dovere morale. Possiamo provare a guardare dall’altra parte, cercare di sfuggire alla realtà. Ma l’ingiustizia che Anna ha subito, la minaccia per il resto d’Europa, non scomparirà per quanto sogniamo di tornare nel mondo prima del 24 febbraio. Sappiamo già che non c’è ritorno alla normalità, nemmeno questa volta.

L’invasione ci impone, oltre che donare i nostri soldi, di accogliere i rifugiati e ripensare il nostro sistema di difesa, di cercare di capire. Prendere in carico è cercare di capire. Abbiamo già visto che non possiamo capire misurando la quantità di male scatenato. Possiamo capire qualcosa solo guardando a come il bisogno di giustizia, di accoglienza, spinge Anna. Solo il bisogno di giustizia per i morti, i feriti, il bisogno di riparazione, che è infinito e insondabile, ci permette di capire. In quel bisogno c’è un altro abisso, ma totalmente diverso da quello da cui nasce la decisione di bombardare. È un abisso positivo. Che Anna abbia bisogno di una riparazione significa che, anche se non ne è cosciente, anche se lo nega, spera di recuperare una buona vita, di raggiungere una vita migliore di quella che aveva. E quell’attesa, in un certo senso, è già una vittoria. L’attesa della buona vita annuncia che la buona vita sta arrivando. Non sappiamo quando.