«Se il mio popolo mi ascoltasse»
Omelia dell’Arcivescovo per la Processione del Corpus Domini, Giovedì 20 giugno
«Città amata, benedetta, generosa, città colta, esperta in ogni scienza, audace in ogni pensiero. Città intraprendente e creativa in mille progetti e smarrita nella direzione promettente e sul fine ultimo. Che anche tu, Santa Chiesa di Dio, possa sperimentare la gioia di un’unità più profonda. Che anche tu, città nostra e di tutti, possa sperimentare la gioia e il desiderio del convivere fraterno, tu che sei arcipelago di competenze, di solitudini, di fierezze e di miserie, di intraprendenza e di concorrenza, di alleanze e di contrapposizioni. Ascoltatevi, accoglietevi, camminate insieme».
Una speranza che l’Arcivescovo declina citando alcune categorie: «Gli architetti, gli ingegneri, i creatori di arredi, di interni e di esterni, che cosa possono imparare se ascoltano i poveri, i giovani, gli anziani? Forse nascerebbero quartieri lenti, propizi all’incontro, forse tornerebbero i bambini. I ricercatori delle frontiere avanzate della medicina, della genetica, delle neuroscienze, i gestori della sanità pubblica e privata, che cosa possono imparare dai preti, dalle suore, dalle badanti, da tutti coloro che raccolgono il gemito dei malati e le loro angosce? Forse si inventerebbero ospedali abitati dalla pazienza insieme con la scienza, dal prendersi cura oltre che dalle cure». E ancora, «i banchieri, i finanzieri, gli operatori della borsa, le forze dell’ordine, che cosa potrebbero imparare ascoltando i commercianti e gli imprenditori, le famiglie e i disperati oppressi dai debiti e dalle insolvenze? Forse si inventerebbe una terapia per l’avidità, un argine alle imprese velleitarie, un incoraggiamento alla sobrietà, una sosta per quella ambizione che mette il profitto al di sopra di tutto».
Tornano le parole-chiave dei Discorsi alla Città 2017 e 2018: «Gli amministratori dei condomini, le associazioni professionali, i sindacalisti degli inquilini, le associazioni dei consumatori, che cosa imparano se ascoltano coloro che non sanno esprimersi, che non sanno dire le loro ragioni? Forse si potrebbe sperimentare la pratica del buon vicinato, della prossimità spicciola e benevola, forse nei cortili tornerebbero a giocare i bambini. Gli artisti, gli insegnanti, i giornalisti, gli uomini di cultura, i poeti che cosa possono imparare dagli assistenti sociali, dagli operatori della carità? Forse si potrebbe imparare una lingua di parole buone, di discorsi che siano come carezze, di notizie che siano come buone ragioni per aver fiducia nell’umanità. Forse ci sarebbero parole di speranza per distogliere i giovani dallo sperpero della giovinezza e per orientare tutti a vivere la vita come vocazione. Gli stilisti, la gente della moda e dello spettacolo, i pubblicitari che cosa possono imparare visitando i quartieri squinternati, interrogando lo squallore e il degrado? Forse si potrebbe condividere il messaggio della bellezza e la cura per un ambiente all’altezza della dignità della persona e un’autorizzazione ad avere stima di sé».
«Abbiamo percorso alcune strade di questa città nostra e di tutti, offrendo all’adorazione il Sacramento della Pasqua, perché vogliamo condividere l’esperienza di essere perdonati, la grazia di avere una speranza di redenzione e di salvezza. Vorremmo costruire insieme una città che sia come una dimora della speranza, non solo una organizzazione della convivenza. Vorremmo costruire una città che sia cammino, non solo residenza rassicurante. Vorremmo costruire una città che sia preghiera, non solo progetto e calcolo. Vorremmo essere testimoni di una speranza di vita eterna e non solo dell’aspettativa di tempi migliori», conclude l’Arcivescovo, prima della benedizione con il Santissimo Sacramento.