Sicuramente la Pentecoste è, tra le feste cristiane, quella meno compresa e quindi meno festeggiata. La ragione sta forse nel fatto che proprio il protagonista di questa festa – lo Spirito Santo – è meno compreso. Forse l’abbiamo troppo ridotto a qualcosa di astratto per cui ci è difficile riconoscerne i tratti nell’esperienza della vita.
Invece, se guardiamo la storia cristiana dall’Ascensione di Gesù al cielo in poi, ci rendiamo conto di quanto sia stato decisivo l’evento della Pentecoste, cioè la discesa dello Spirito sugli apostoli. Dopo che Gesù è asceso al cielo e scompare dalla loro vista, loro rimangono soli; soli con l’esperienza che avevano avuto con quell’uomo ma che ancora non capivano.
Che cosa diventa, allora, per loro la venuta dello Spirito? Diventa come la scintilla, la sorgente del vedere Dio, cominciano a fare esperienza di Dio, cominciano a vedere che Dio vive in loro e tra loro.
Senza quell’evento, per noi come per loro, l’incontro con Cristo rimane nell’ambito ristretto dell’esperienza puramente umana e non in grado di redimere, di aprire la vita all’eterno.
Nell’evento della Pentecoste gli apostoli capiscono finalmente chi era quell’Uomo che avevano seguito. L’esperienza del loro incontro e della loro lunga convivenza con Lui, d’improvviso si plasma in un’altra esperienza, assolutamente imprevista, sconcertante: l’esperienza della realtà divina, l’incontro, la convivenza con Dio, luminosa, sicura, forte. Cristo è il senso della storia e il signore dell’universo. Cristo è il punto di vista che spiega ogni cosa. È l’inizio della Chiesa.
Quando Barnaba e Paolo, dopo il primo viaggio missionario, tornano ad Antiochia gridano entusiasti: “Dio ha aperto ai pagani la porta della fede”. Come a dire: nel carcere del naturalismo pagano Dio ha aperto uno squarcio.
Senza questa esperienza, anche oggi non è possibile raccapezzarsi sulla vita e sul suo destino. Si vive ma si va ramenghi. E si può essere cristiani e andar ramenghi se non riaccade oggi per ciascuno quello che è accaduto agli apostoli.